Più spesa pubblica o meno spesa pubblica? Giavazzi sbanda.
(#GL) Correva l’undici gennaio 2018 e l’ormai collaudato duo di economisti Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, prematuramente scomparso nel 2020, firmava sul Corriere della Sera uno dei ricorrenti editoriali sulle «favole del debito pubblico».
La ricetta era sempre quella: massicci avanzi di bilancio, ovvero la famosa austerità espansiva o, per dirla con le sue parole, «la conclusione è che ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito».
Ma sul numeratore bisognava agire in un certo modo. Infatti «Un avanzo nel bilancio pubblico si può ottenere o riducendo le spese o aumentando le imposte. L’evidenza empirica dimostra che un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese riduce la crescita, così tanto che alla fine il rapporto debito/Pil anziché diminuire sale ancor di più. Invece, tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil perché non rallentano la crescita, o al massimo la influenzano di poco e per poco tempo».
Insomma tagli alla spesa pubblica come se non ci fosse un domani, dagli effetti taumaturgici.
Sono passati poco più di 6 anni e lunedì stentavamo a credere ai nostri occhi quando abbiamo letto che «il punto di arrivo – o forse dovremmo dire di ripartenza – è tanta spesa pubblica e senza alzare troppo la pressione fiscale altrimenti persone e imprese si sposteranno altrove. È un’equazione che solo il debito può risolvere».
Cos’è accaduto in questi sei anni, al punto da determinare un così clamoroso ribaltamento di opinione? Nulla. O meglio, ci sono state solo alcune conferme aggiuntive della fallacia delle politiche economiche di austerità e compressione della domanda che già negli anni Venti del secolo scorso spalancarono le porte ai regimi totalitari in Europa.
La differenza rispetto al 2018 sta nel fatto che allora bisognava picchiare duro su qualche decimo di punto di deficit/Pil che si intravedeva nel programma del M5S. Propositi miseramente falliti quando, al governo con la Lega, furono messi in ginocchio dalla dura legge dello spread, al punto da conseguire nel 2019 un deficit/Pil del 1,6%, tra i più bassi degli ultimi anni.
Oggi Giavazzi la prende alla lontana per rifarsi una verginità. Il reddito pro-capite europeo è nuovamente stato superato da quello degli USA, dopo che li avevamo quasi agganciati all’inizio degli anni ’90, facendo leva su una «crescita per imitazione». Da allora gli USA sono ripartiti con una potente ondata innovatrice nel settore digitale che ha ricevuto ulteriore impulso dopo il lockdown con la spinta alla transizione energetica. Entrambe direttrici di sviluppo che richiedono ingenti investimenti la cui scala dimensionale è enorme. Un mercato dei capitali agile e di rilevanti dimensioni e un sistema formativo altrettanto reattivo, sono state le leve utilizzate negli Usa, oltre al massiccio stimolo del bilancio pubblico, via sussidi alle imprese.
Sorvoliamo su tale affrettata e semplicistica ricostruzione che, per esempio, non si chiede chi e cosa ha impedito che anche nella Ue ci fosse un adeguato flusso di investimenti. Non è stato il destino cinico e baro, ma una deliberata scelta di compressione della spesa pubblica, proprio quella scelta sostenuta da Giavazzi nel 2018, dei redditi e della domanda privata.
Oggi invece Giavazzi scopre che ci sono «investimenti che soltanto uno Stato può affrontare». E arriva addirittura a mettere in dubbio il fatto che sia troppo tardi, evidenziando che in alcuni settori come l’Intelligenza Artificiale, l’automobilistico e quello delle rinnovabili, il ritardo accumulato sia irrecuperabile.
E allora da dove si riparte? «Tanta spesa pubblica». Lo riscriviamo perché non ci sembra vero. Dopo 25 anni Giavazzi scopre l’intrinseca pericolosità di un modello di crescita export-led, guidato dalla Germania, ma a cui si è accodata l’Italia e buona parte dell’Eurozona. Scopre che avere un avanzo delle partite correnti con l’estero di 350 miliardi l’anno significa finanziare col nostro risparmio gli investimenti degli altri. Significa non «investire nell’istruzione, nella sanità, nella riqualificazione dei lavoratori quarantenni».
Il «rischio» è quello di fare la fine della rana bollita, conclude. Peccato che ce lo dica solo ora, quando ci vorranno un paio di generazioni per recuperare terreno. Mentre solo 6 anni fa era tra quelli che si impegnava a tenere la rana ben chiusa nella pentola. Allora sorge spontanea la domanda: perché proprio ora?
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati delle commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it