(#SG) Esce oggi in libreria L’impero minore. Crisi industriale e crisi democratica nell’Unione europea, di Sergio Giraldo (Diarkos, 272 pagine, 20 euro). Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo alcuni stralci dell’introduzione.
Con il Trattato di Maastricht, l’Unione europea diventa terreno di conquista per gli istinti egemonici della Germania, che impone agli stati membri il proprio modello politico-economico ordoliberale. In esso, alle esportazioni è affidato il compito di trainare l’economia, il che porta con sé risvolti politici pesanti. Il modello prescrive infatti una compressione delle dinamiche salariali, della spesa pubblica e della domanda interna, il controllo dell’inflazione e il contenimento dei consumi, in nome della ricerca della competitività sui mercati esteri. Forti economie export-led, come quella tedesca, portano, alla lunga, a squilibri macroeconomici: vampirizzando la domanda dei paesi verso cui esportano, esse crescono sulla capacità di spesa degli altri paesi, deprimendone la crescita sino al collasso.
[…] Le radici della crisi europea stanno quindi nella imposizione di un modello di sviluppo costruito sulla ricerca della competitività utilizzando principalmente la leva del prezzo, cioè del costo dei fattori di produzione. Una leva che è stata esercitata negli ultimi trent’anni agendo sul contenimento dei salari, cioè a spese dei lavoratori.
[…] Ciò non sarebbe stato possibile senza la fattiva ed entusiasta collaborazione della sinistra politica, che dai primi anni ’90 del secolo scorso, in Italia e in Europa, è diventata portabandiera del surrogato provinciale del neoliberismo, ovvero l’europeismo. Una svolta politica opportunistica resa possibile dalla fine del regime sovietico, avvenimento che troppo spesso viene derubricato a “crollo del muro di Berlino”, come se la scomparsa della prassi di governo comunista si riducesse a una questione urbanistica.
[…] Il deficit democratico dell’Unione europea non è un problema secondario, è anzi tra le cause originarie della sua stessa crisi. Sulle scelte compiute dall’Unione non vi è un reale meccanismo di responsabilità politica.
[…] L’Unione europea è una sorta di suk diplomatico in cui si esprimono la politica di potenza della Germania e la pretesa specialità della Francia. Nel gioco di specchi condotto informalmente a Bruxelles, le regole sono create e interpretate a misura dei due grandi paesi. Questo sostanziale svuotamento del livello nazionale di decisione politica a favore di una o più entità sovranazionali genera un vulnus nelle democrazie degli ex stati sovrani, ora retrocessi a stati membri, quasi delle province. Privo dell’attributo della responsabilità politica nei confronti degli elettori, il sistema di governo europeo si fa via via più sciolto da vincoli politici e istituzionali, ovvero assoluto.
Nel perseguimento di un ruolo mondiale come potenza terza, in competizione con Cina e Stati Uniti, l’Unione europea è sempre meno democratica e sempre più verticistica. Ma l’Unione non è uno stato nazionale come USA e Cina, bensì un gruppo di paesi tenuto insieme da una rete di trattati. […] Nel suo tentativo di costituirsi come potenza mondiale, l’Unione assomiglia più ad un abbozzo di impero. Una costruzione imperiale che non arriverà mai a compiutezza, per difetto iniziale di costruzione. Un impero minore, rispetto alle due grandi potenze nazionali Stati Uniti e Cina.
[…] Nonostante i proclami, non esiste un interesse comune europeo, ma solo il tornaconto di Berlino, veicolato attraverso le sovrastrutture di Bruxelles. La mancanza di un vertice forte autenticamente sovrano (imperiale, appunto) è intenzionale, poiché il vuoto al vertice viene riempito dal presidio tedesco sui processi decisionali.
[…] Vi sono elementi nuovi che stanno contribuendo al precipitare della crisi: gli shock degli ultimi anni. Il primo shock, autoinflitto, è il cosiddetto Green deal. Lanciato dalla Commissione europea sul finire del 2019, rappresenta un ambizioso programma di riconversione industriale, che ha come filo conduttore l’energia. Di questa nouvelle vague industriale fanno parte le fonti rinnovabili, l’idrogeno, l’acciaio verde, sistemi di riscaldamento elettrici e, naturalmente, l’automobile elettrica a batteria. Il Green deal rappresenta lo strumento che la Germania, attraverso la sovrastruttura europea, ha voluto imporre per ristrutturare la propria industria, in crisi di redditività e in cerca di nuovi mercati.
Il Green deal nasce in sostanza per scaricare sull’Unione i costi della ristrutturazione industriale tedesca. Esso rappresenta il mezzo attraverso cui il blocco corporativo tedesco (politico-finanziario-industriale) intende riconvertire il proprio apparato produttivo. In puro stile ordoliberale, l’idea del Green deal è quella di imporre un quadro regolatorio che obblighi ad un salto tecnologico che i mercati non chiedono, ma che si sposa perfettamente con l’onda alzata dagli accordi di Parigi sul clima. Vista la situazione alle soglie del 2020, per l’industria tedesca era necessario creare un mercato ex novo, in cui gli investimenti nel settore industriale (automobile in primis) potessero tornare a fornire ritorni interessanti in prospettiva.
Non è un caso che i settori economici più toccati dal Green deal siano quelli più maturi come automobile, edilizia e infrastrutture. Settori tangibili su cui si è basato lo sviluppo economico del secondo dopoguerra e che sono stati alla base del benessere generato in Europa fino all’inizio degli anni ‘90 del Novecento.
Il secondo elemento di accelerazione, anch’esso in gran parte autoinflitto, è rappresentato dalla crisi energetica che si è verificata in Europa a partire dal 2021 e che è esplosa, letteralmente, nel 2022. Lo squilibrio sul mercato europeo del gas iniziato nella primavera del 2021 ha aggravato la de-industrializzazione del continente, oltre a causare un’ondata inflattiva alla quale la Banca Centrale Europa, con riflesso pavloviano, ha reagito alzando i tassi di interesse.
[…] Ciò che chiamiamo qui impero minore è l’involucro dentro cui si muove la diplomazia economica tedesca. Una diplomazia che si è mossa negli ultimi trent’anni secondo due direttrici. La prima è l’espansione verso l’Est europeo, allargando l’Unione e la moneta unica ai paesi dell’ex Patto di Varsavia, nonché allacciando serrati rapporti d’affari con la Russia. La seconda linea di allargamento della sfera di influenza è l’intreccio economico sempre più profondo con la Cina. Il tutto con l’obiettivo di conquistare i mercati mondiali.
Ma le linee di espansione dell’influenza germanica sono entrate in collisione in maniera palese con quelle statunitensi.
Inoltre, il modello di sviluppo dell’impero minore è andato in crisi, come era prevedibile. Le politiche di austerità imposte all’interno del mercato unico stanno causando l’aggravamento della crisi industriale europea. L’Unione europea è un mercato “fortemente competitivo”, il che significa che tra stati membri vi è competizione. Una competizione condotta a base di contenimento del costo del lavoro, come certificato da Mario Draghi nel discorso di La Hulpe dell’aprile 2024. Evidentemente, a lungo andare la compressione del potere d’acquisto rende il mercato interno non più sufficiente ad assorbire il surplus tedesco di produzione, e così inizia la crisi. La competizione sui costi del lavoro, con investimenti bassi, ha depresso la produttività, che infatti in Europa è cresciuta pochissimo rispetto agli Stati Uniti. L’austerità imperiale sta annichilendo il potere d’acquisto degli europei. Questo ferisce anche la Germania, che realizza più della metà del suo surplus nel mercato interno. Il piano della Germania di occupare i mercati e al contempo di imporre l’austerità è dunque in sé contraddittorio e sta mostrando la corda.
[…] La crisi dell’Europa, e del mondo Occidentale, è una crisi delle élites, che hanno perso il contatto con la realtà perché si sono arroccate nell’agio dello strapotere globale. Quando l’ascensore sociale ha smesso di funzionare, perché scassato dalle stesse élite, si è perso quel meccanismo di ricambio indispensabile al sano rinnovamento della dirigenza culturale, politica, economica. La manutenzione dell’ascensore sociale è stata affidata alla sinistra europea, che ha molto lavorato per evitare che questo funzionasse di nuovo.
L’impero minore trae la sua forza dal conformismo. Se esso si è affermato sino a questo punto, sino al limite dell’autodistruzione, è perché il senso critico è stato sepolto sotto l’untuosa retorica dominante. Mai come oggi serve ritrovare la sfrontatezza per dire, a voce alta, che il re, anzi, l’imperatore, è nudo.
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati delle commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it