OUT! n. 13 - 28/06/2024
Rinnovabili: no sussidio no party! | Autonomia portami via | Mancetta per le nuove assunzioni| Biden molla? | C'è posta per Lagarde | I ricchi francesi scappano in Italia? |
Rinnovabili: no sussidio, no party!
(#FD) Se leggete OUT! siete sempre un giro avanti. E vi portate avanti col lavoro. Alcuni giorni fa, proprio qui, Sergio Giraldo scriveva che “sta montando in Europa così tanta capacità fotovoltaica che l’eccesso di offerta, e dunque i prezzi negativi, rischiano di essere una costante in molti paesi, su tutto il profilo di produzione fotovoltaico. E se è così, nessuno più vorrà fare impianti: nessuno vuole pagare per vendere la propria energia. Il fotovoltaico lasciato a sé stesso si autodistruggerà”. Argomento brillantemente ripreso da Chicco Testa qualche giorno dopo sul Foglio. “Le rinnovabili, sole e vento soprattutto, hanno molti vantaggi a cominciare dai risparmi sul combustibile e l’assenza di emissioni”. Ma anche due grossi svantaggi: l’intermittenza e la contemporaneità. La prima caratteristica attiene al fatto che l’energia viene prodotta non quando serve a noi ma quando c’è sole o vento. E quando il buon Dio ci regala tutto questo non possiamo modulare gli sforzi od immagazzinare l’energia. Dobbiamo produrla tutta insieme e consumarla tutta insieme. Questo significa appunto che se quella energia supera il nostro fabbisogno in quel momento che la produce non deve semplicemente regalarla, ma addirittura pagare per venderla. Potete ovviamente credere che la tecnologia consenta di accumulare questa energia da utilizzare quando serve. Tipo l’immenso cubo alto, lungo e largo 100 metri costruito da Energy Vault a Shangai. Un coso dal nome fico chiamato “accumulatore di energia gravitazionale” dove immagazzinare l’energia solare o eolica non consumata. E che una volta entrato in funzione, a piena ricarica tipo 100% del vostro telefonino, fornisce tutta l’energia che serve a Shangai per 9 interminabili secondi. Fin qui le opinioni, direte voi. Ma i fatti dicono che…I fatti dicono che, come riporta il Daily Telgraph, che British Petroleum ha messo in pausa i suoi programmi di investimento relativi alla costruzione di nuovi mulini a vento offshore. Pardon, parliamo di pale eoliche. Ad oggi la potenza installata raggiunge i quasi 15 GW, ma dovrebbe arrivare a 60 GW entro il 2030 secondo i piani di decarbonizzazione del Regno Unito. Man mano che però il tempo passa, sale il dubbio che i sussidi garantititi per garantire tariffe artificialmente più alte -anche quando il prezzo dovrebbe essere negativo- possano continuare ad essere erogati. E nel mondo delle rinnovabili, come dice Massimo Nicolazzi, il capitale va dove ci sono i sussidi. Questo è il business. Niente sussidi, niente investimenti.
Autonomia: e le province?
(#SG) Gli alti lai sul presunto strappo alla Costituzione che deriverebbe dall’approvazione della legge Calderoli sull’autonomia regionale sono bizzarri e, soprattutto, fuori tempo massimo. La legge sull’autonomia differenziata approvata pochi giorni fa non fa altro che regolare la procedura con la quale le regioni possono attuare quanto previsto dalla Costituzione al Titolo V. La legge costituzionale n. 3 del 2001 ha modificato sostanzialmente la Costituzione proprio in quella parte, introducendo appunto la possibilità per le regioni di ottenere forme e condizioni particolari di autonomia. Una possibilità in più per le regioni che non hanno lo status di regioni a statuto speciale (Friuli, le isole, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta). È vero che non serviva una legge attuativa, poiché l’art. 116 e con l’art. 119 della Costituzione dettano già criteri e metodi. Paradossalmente, la nuova legge introduce una procedura più articolata di quella esistente e complica le cose per le regioni che volessero intraprendere questo cammino.
Il principio dell’autonomia regionale differenziata è un principio costituzionale acquisito già dal 2001, dunque un referendum abrogativo della legge Calderoli non sposta di una virgola la facoltà delle regioni di procedere a intese con lo Stato per ottenere maggiore autonomia secondo il dettato del Titolo V. La legge del 2001 ha modificato l’assetto amministrativo italiano, mettendo su un piano di integrazione e cooperazione quello che era un originario impianto verticale delle autonomie territoriali.
Piuttosto, è stata la riforma monca delle province (legge Delrio 56/2014 e abortito progetto di riforma costituzionale Renzi-Boschi) ad aver generato una serie di problemi non da poco. Lo dice la relazione dell’Unione delle Province Italiane del 2022:
“Oltre 5.100 edifici di scuole superiori e 120 mila chilometri di strade con oltre 30 mila ponti e gallerie, che per anni non hanno ricevuto dallo stato le risorse necessarie a garantirne prima di tutto la sicurezza”.
La campagna di stampa per l’abolizione delle province prese le mosse dalla lettera di Mario Draghi e Jean-Claude Trichet del 5 agosto 2011, che espressamente ne richiedeva l’abolizione. La propaganda populista e anti-casta si è precipitata a descrivere le province come luoghi infami di sprechi e nepotismo, trascurando qualche dettaglio, come sempre. L’esito concreto della riforma, che ha trasformato le provincie in enti funzionali e strumentali retti da governi di 2° grado, è che oggi chi si occupa della sicurezza di strade, ponti, gallerie e scuole deve farlo nei ritagli di tempo lasciati dagli altri incarichi, senza indennità e senza responsabilità politica. Le province hanno ancora le competenze importantissime che avevano prima della riforma, ma è stata loro tolta la legittimazione democratica data dal voto. Una legittimazione che non è una questione di forma, ma di efficacia nella gestione del territorio. Se il presidente della provincia è anche sindaco di una grande città, chi ne fa le spese? Se proprio si vuole parlare di sfregi alla Costituzione, parliamo di questo.
La mancetta per le nuove assunzioni
(#GL) Mettetevi nei panni di un qualsiasi imprenditore che alla fine del 2023 aveva letto sulla Gazzetta Ufficiale di un risparmio di imposte se avesse aumentato l’occupazione nella sua azienda.
Avendo letto la norma, aveva capito che non era l’affare del secolo ma, tutto sommato, conveniva provarci. Poi però, aveva letto che “…con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da emanarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente disciplina, sono stabilite le disposizioni attuative del presente articolo…”. E quindi si era messo pazientemente ad attendere quel decreto.
Che però è stato firmato dai ministri Giancarlo Giorgetti e Marina Calderone solo martedì scorso. 6 mesi dopo.
A quel punto, comincia a farsi due conti.
E scopre che – dopo aver superato un labirinto di condizioni antielusive per la cui esatta comprensione dovrà profumatamente pagare un consulente del lavoro – per ogni 1000 euro di costo del lavoro complessivo (stipendi, contributi, ecc…) relativo ai nuovi assunti pagherà una minore Ires di 48 euro. Poi chiama il suo addetto al controllo di gestione e gli chiede quanto incide questo minor costo sul costo totale del lavoro e sul costo totale del prodotto. Così da poter essere più aggressivo commercialmente, vendere di più e produrre di più, giustificando quindi le nuove assunzioni.
La risposta è un numero con la parte intera pari a zero e, dopo la virgola, una sequenza di zeri e poi, in fondo un numero superiore a zero.
A quel punto, congeda l’addetto al controllo di gestione e il consulente del lavoro e decide di non assumere nessuno. Qual è l’imprenditore che si carica di un costo di 100 solo perché, grazie all’aiuto dello Stato, questo diventa 95,2, peraltro avendo a disposizione solo 6 mesi?
Cos’altro ci si poteva aspettare da un “aiuto” che vale un mancato gettito per lo Stato pari a 1,3 miliardi, quando con l’altra mano, lo Stato si prende 4,8 miliardi di incentivo ACE abolito?
Biden molla?
(#FD) Proprio alcuni giorni fa scrivevo su OUT! che sarebbe stato impossibile sostituire un Joe Biden non particolarmente in forma (mettiamola così!) per la sua corsa alla Casa Bianca. È vero che ad inizio gennaio l’analista Michael Cembalest di JP Morgan aveva previsto il clamoroso avvicendamento. E se lo dice JP Morgan, be’ un po’ c’è da crederci. Ma andando in scena il primo dibattito fra Trump e Biden il 27 giugno, ritenevo la cosa materialmente impossibile giunti a questo punto. Beh, forse mi sbagliavo. L’esito del dibattito è stato a tal punto disastroso, che in diretta televisiva sulla CNN Van Jones, già collaboratore di Obama ed attualmente di Biden, in sede di commento ha dovuto alzare bandiera bianca. “Non sono affetto dal panico ma dal dolore. Collaboro con Joe Biden cui voglio bene. E lui vuole bene agli Stati Uniti. Ma mancano due mesi alla convention democratica che dovrà incoronare il candidato alla Casa Bianca. Ed è giunto il momento di fare scelte diverse” questo, in sintesi, il suo pensiero espresso a milioni di telespettatori. Il 67% degli spettatori che hanno partecipato ad un sondaggio volante, ovviamente non significativo a livello statistico, ha affermato che ha vinto Trump. A dire il vero non sarebbe la prima volta che il candidato alla Casa Bianca viene sostituito in corsa. Accadde al Presidente uscente Lindon Johnson prima delle elezioni presidenziali del 1968. Pur essendo vincente nelle primarie, la sua disastrosa conduzione della guerra in Vietnam spinse i democratici a sostituirlo con Hubert Humphrey. Che poi fu sconfitto da Nixon. E si badi bene, Johnson quattro anni prima aveva vinto a valanga sull’onda del trasporto emotivo dovuto all’assassinio di Kennedy cui dovette succedere in corsa in quanto Vicepresidente. Il punto però è che tutta l’America ha visto coi propri occhi l’incapacità manifesta di Biden per quanto dal suo entourage escludano categoricamente ed esplicitamente la possibilità di un suo abbandono anche dopo la pessima performance televisiva. Ma il momento della verità sarà la Convention DEM che si terrà ad agosto. Insomma la sostituzione di Biden diventa sempre più necessaria ma sempre meno praticabile man mano che il tempo passa!
C’è posta per Lagarde
(#SG) “Un forte intervento della BCE solleverebbe domande dal punto di vista economico e costituzionale”, ha detto ieri il ministro delle finanze tedesco Christian Lindner. La frase è riferita alle preoccupazioni che le turbolenze finanziarie a seguito delle elezioni francesi possano portare alla necessità di utilizzare il Transimission Protection Instrument della BCE, volgarmente noto come scudo anti-spread, per acquistare titoli francesi. Finora il TPI “è esistito solo nei comunicati stampa” ma il suo utilizzo "metterebbe alla prova anche il ministro delle finanze tedesco per vedere se tutto ciò è ancora in linea con il diritto dei trattati. Ecco perché non lo voglio".
Come ha spiegato qui Giuseppe Liturri, lo spread tra l’OAT francese e il Bund tedesco si è allargato e le tensioni sulle obbligazioni governative francesi crescono con l’avvicinarsi delle elezioni. Ora il governo tedesco mette le mani avanti e dice in sostanza che la Francia dovrà cavarsela da sola. In realtà la letterina di Lindner non è diretta a Parigi ma a Francoforte, ed è destinata alla Presidente della BCE, la francese Christine Lagarde. Il TPI non è mai stato adottato, sinora, e Lindner sembra voler dettare la linea, avvisando Lagarde che la sua attivazione non sarebbe una strada facile da percorrere. Dall’altra parte, un intervento della BCE in caso di reale crollo dei titoli francesi sarebbe necessario, se si vogliono evitare guai peggiori. Un “se” molto grande.
I ricchi francesi scappano in Italia?
(#GL) Non si può non guardare a Parigi in questo prossimo fine settimana.
Il primo turno delle elezioni legislative potrà dare un serio scossone alla governabilità di quel Paese e, di conseguenza, anche agli equilibri politici nel resto della UE.
Ancora oggi tutti i principali media internazionali ribadivano i toni allarmati sulle conseguenze di una vittoria della coalizione di sinistra (Fronte Popolare) o della coalizione di centro-destra (capeggiata dal Rassemblement National di Jordan Bardella).
Da quando Emmanuel Macron ha chiamato il voto anticipato l’indice della Borsa di Parigi ha perso quasi il 7% e il bond governativo francese paga uno spread sul bund tedesco di 80 punti, e lo spread positivo con il Btp si è ridotto a 77 punti, ai minimi storici.
Insomma pare che il panico stia prendendo piede tra i grandi capitalisti francesi. Anche se Edouard Carmignac ritiene che i mercati imporranno la loro disciplina e terranno al guinzaglio stretto RN. Ma questo pomeriggio sul Financial Times è apparso un dettagliato resoconto sulle manovre in corso per proteggere le grandi ricchezze minacciate da prelievi straordinari, soprattutto dal Fronte Popolare.
“Siamo sommersi dalla richieste di investitori preoccupati di capire se il loro denaro in Francia è ancora al sicuro”. È scattata la ricerca al “porto sicuro” tra cui appare bene in vista l’Italia, oltre alla solita Svizzera e alla Spagna.
Dell’Italia piace lo speciale regime che consente agli stranieri di pagare una cifra fissa di €100mila per esentare i proventi esteri dalla tassazione. Però bisogna qualificarsi come fiscalmente residenti in Italia e cioè essere fisicamente nel Bel Paese per almeno 183 giorni.
Allora – parola degli esperti del FT – qualche danaroso francese ha deciso di portarsi avanti e ha prenotato una camera d’albergo in Italia, pensa di fermarsi almeno fino alla fine di luglio e poi deciderà sul da farsi.
Saremo il paradiso fiscale dei francesi?
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it