OUT! n. 16 - 03/07/2024
Frexit: non vorrei ma posso. Anzi devo | Biden vuole restare | Gli Usa non trovano i soldi per l'Ucraina | La Sicilia ha sete | PPE di lotta e di governo | Aiuti di Stato alle rinnovabili
Frexit: non vorrei ma posso. Anzi devo!
(#FD) “In un modo o nell’altro il 30 giugno 2024 potrebbe essere ricordato come il giorno in cui i francesi, consapevolmente o meno, hanno imboccato la strada della ‘Frexit’: l’uscita dall’Ue” scriveva ieri nel suo Mattinale David Carretta. Newsletter la cui lettura vi consiglio perché le opinioni di Carretta, diversissime da chi scrive su OUT! meritano di essere comunque lette soprattutto in controluce. Ad onor del vero su questo tema siamo pure d’accordo con Carretta ma per motivi diversissimi. La possibile uscita della Francia dalla moneta unica non sarebbe una scelta ma un’inevitabile conseguenza di squilibri economici divenuti non più sostenibili e soprattutto non rimediabili se non con un’altra moneta. La Francia non ha un problema di debito pubblico ed interno ma bensì privato ed estero. Se il problema fosse di debito pubblico, sarebbe sufficiente un “whatever it takes” -soluzione peraltro già sperimentata e con successo- assieme alla sospensione del Patto di stabilità. Pure questa altra strada sperimentata e con successo. Il punto è che la Francia ha un problema di debito privato e con il settore estero quale conseguenza di almeno venti anni ininterrotti di deficit commerciale dove le importazioni hanno sempre superato le esportazioni. Come ricordato da Giraldo qui su OUT! la posizione finanziaria netta con l’estero della Francia arriva a -30% del PIL. Una cifra astronomica se confrontata al +7% dell’Italia ed all’astronomico +70% della Germania. Entrambi paesi, soprattutto il secondo, in forte surplus commerciale. L’Italia ha pagato a caro prezzo questo privilegio a suon di austerità. Ricorderete l’ormai famoso “we are actually destroying domestic demand through fiscal consolidation” di Mario Monti (“in effetti stiamo distruggendo la domanda col consolidamento fiscale”). L’Italia ha cioè drasticamente ridotto le proprie importazioni a suon di imposte e tagli che hanno massacrato gli italiani. Riprova ne sia, come testimoniato oggi su X dall’economista Philippe Heimberger, che dal 1990 al 2023 nessun paese ha visto crollare i salari reali come l’Italia con una diminuzione del 5% circa. La cosa è stata resa possibile anche da una legislazione sul lavoro che ha reso il lavoro sempre più flessibile e meno costoso. E si è resa necessaria perché da allora, salvo un paio d’anni, l’Italia ha sperimentato il cambio fisso senza poter svalutare la propria moneta. Ma se non svaluti la moneta svaluti il lavoro. Quindi la deflazione interna impoverisce il paese ma tiene in ordine i conti con l’estero. Nell’immediato riducendo le importazioni e nel lungo termine rendendo le imprese più competitive con l’estero. Questo servirebbe alla Francia. Pensate sia una strada politicamente percorribile in un paese continuamente a ferro e fuoco? Ma nel vero senso della parola? Vi sarebbe una seconda possibile soluzione. Quella dei trasferimenti in favore della Francia. Trasferimenti diretti, vale a dire sussidi dagli altri paesi che però rimanderebbero il problema perché la Francia continuerebbe ad importare. Oppure gli altri Paesi, Germania e Italia in testa, iniziano a spendere e spandere con ciò stimolando anche l’export francese. Lo ritenete politicamente possibile nell’attuale quadro europeo? Rimane la terza soluzione. La svalutazione. Ma non dell’euro verso le altre monete perché non cambierebbe lo squilibrio commerciale della Francia dentro l’eurozona. Ma dell’ipotetica nuova moneta francese. Il ritornato franco. Ecco perché la Frexit non sarà una scelta. E non sarà semplice!
Biden vuole restare
(#SG) La brutta performance di Joe Biden nel faccia a faccia televisivo con Donald Trump ha gettato nel panico il campo democratico americano. All’interno del partito, dopo che qualche dubbioso nei mesi scorsi era stato tacitato con argomenti da realpolitik (“Non si cambia cavallo in corsa!”), sono esplosi come tappi di champagne gli appelli al Presidente perché lasci il posto da candidato democratico alla Casa Bianca a qualche altra figura più giovane e, ci sia consentito, più presente. I giornali americani parlano di panico e rabbia tra le fila democratiche, con il timore di perdere le elezioni di novembre che si fa sempre più grande. Gli appelli cortesi si sono fatti via via più ruvidi fino a spazzare via anche quel po’ di rispetto che si deve agli anziani, persino di fronte a un Trump azzoppato da processi e di poco più giovane di Biden.
Quest’ultimo, ispirato dagli amorevoli consigli di moglie e parenti, ha fatto sapere che non pensa nemmeno lontanamente a lasciare, dando la colpa al jet lag per la scarsa riuscita nel dibattito in TV.
Ebbene, Biden probabilmente ha ragione. Non sul jet lag, ma sul fatto di restare candidato. Il grande partito democratico americano, con tutto il suo carico di istanze politiche inclusive, su oltre 300 milioni di cittadini statunitensi non è riuscito a trovare un candidato migliore di questo. Il candidato Biden è stato protetto, coccolato, istruito, portato per mano sino alla soglia del giorno delle elezioni da un establishment che legittimamente ha fatto i propri calcoli. È giusto, a questo punto, che la scommessa sia portata fino in fondo e sia messa alla prova degli elettori. Se alla maggioranza dei cittadini americani piacerà questa proposta e Biden dovesse essere confermato nel suo ruolo, i dirigenti democratici avranno avuto ragione. Se così non dovesse essere, avranno quattro lunghi anni di tempo per riflettere.
Gli Usa non trovano i soldi (già promessi) per l’Ucraina
(#GL) Qualcuno ricorderà l’annuncio trionfale dopo il G7 pugliese, solo poche settimane fa. L’Ucraina avrebbe ricevuto un prestito di 50 miliardi di dollari, garantito dai proventi sugli asset russi sequestrati.
È stato presentato come l’unico risultato degno di nota del meeting. Sul quale ci eravamo permessi di esprimere delle perplessità.
Ora, dopo solo poche settimane, quando alle dichiarazioni di principio dei leader devono seguire i fatti, nessuno sa come fare. I conti non tornano.
E la vicenda sta assumendo contorni grotteschi. Il solitamente ben informato Politico.EU riporto fonti diplomatiche UE che accusano gli Usa di comportarsi come chi, quando arriva il cameriere con il conto, trova la scusa per andare alla toilette.
Come prevedibile, a Washington dopo essersi sbilanciati promettendo di coprire il saldo residuo dopo aver raccolto le disponibilità degli altri Paesi, si sono accorti che utilizzare il denaro dei contribuenti obbliga l’amministrazione Biden a chiedere l’autorizzazione del Congresso. Dove, in precedenza, ci sono voluti mesi per sbloccare altri prestiti a Kiev e questa volta si potrebbe andare ben oltre la scadenza prevista per fine anno.
Allora, i tecnici sono al lavoro per trovare una soluzione, che non può che passare (nuovamente?) dalla decisione dei politici.
Per il momento gli Usa stanno recitando il ruolo di chi invita tutti a cena, promettendo di pagare, e poi chiede di "fare alla romana”.
La Sicilia ha sete
(#FD) Oggi il Sole 24 Ore apre con una dettagliata analisi del problema siccità in Italia. Anche qui il Paese è diviso in due. E senza che l’autonomia differenziata c’entri nulla. Mentre al Centro Nord la situazione idrica si presenta normale in Sicilia il grado di severità del fenomeno è definito da Ispra “alto”. Il dibattito mediatico ovviamente verterà sul cambiamento climatico inesorabile che ha reso la Sicilia una terra siccitosa. Noi da par nostro consultiamo i dati Istat. Più nello specifico le statistiche sull’acqua nel periodo 2020-2023. I dati sono riferiti al 2022. In Italia i nostri acquedotti se la passano male. Viene disperso il 42% dell’acqua messa nelle tubature. La situazione in Sicilia è ancora più drammatica. A causa dei buchi nell’acquedotto manco fosse groviera viene infatti sprecato oltre il 51% delle acque. In Sicilia viene cioè immessa ogni giorno una quantità di acqua pari a 374 litri per abitante. Ma ne arrivano solo 181 con una perdita appunto superiore al 50%. Se la Sicilia perdesse acqua dai propri acquedotti quante ne perde la Lombardia (che non è la più virtuosa con le sue perdite di poco superiori al 30%) ad ogni siciliano arriverebbero ogni giorno mediamente 255 litri e non 181. Poco meno di quanto arriva al cittadino lombardo. Ovvero 260 litri. Eh, ma il problema si risolve con le auto elettriche.
PPE di lotta e di governo
(#SG) In questi giorni a Cascais (ridente ed elegante località balneare a un tiro di schioppo da Lisbona) il PPE è riunito in seminario per decidere i do’s and don’ts per la nuova Commissione europea. Nel pomposo linguaggio politico, il documento programmatico del partito per la prossima legislatura del Parlamento europeo, in base al quale esprimere o meno il gradimento verso la nuova Commissione che a luglio chiederà il voto del Parlamento di Bruxelles. Ebbene, da ciò che emerge dalle cronache, la bozza del documento riporta un paio di novità interessanti. La prima riguarda il Green Deal: il PPE chiede “una nuova strategia per gli E-fuel/biocarburanti/carburanti a basse emissioni di carbonio, con incentivi e finanziamenti mirati, per accompagnare la strategia dell'Ue sull'idrogeno". Il PPE vorrebbe una “revisione delle regole per la riduzione della CO2 per auto e furgoni nuovi per consentire l'uso di carburanti alternativi a zero emissioni oltre il 2035". Chi ha seguito la vicenda sa che il bando dei motori endotermici al 2035 è già norma approvata in Ue, ma resta appesa ad un filo sottile. La Commissione infatti deve ancora emettere un documento tecnico di dettaglio in cui chiarire cosa si intende per “combustibili a zero emissioni”. Se cioè questo significhi zero emissioni allo scarico, che lascerebbe spazio solo agli e-fuel da idrogeno tanto cari ai tedeschi, o se si intenda invece che il ciclo complessivo del combustibili abbia un saldo di emissioni pari a zero, cosa che lascerebbe spazio ad altri tipi di combustibile. Una piccola apertura verso le istanze italiane sui biocarburanti, dunque.
Di contro, il PPE non rinnega il Green Deal (che ha sostanzialmente scritto e votato) e nel documento farebbe riferimento alla necessità di trasformarlo in “green growth deal”, ponendo l’accento cioè su crescita economica e competitività. Le quali però sono le stesse premesse del green deal. Anzi, promesse (sin qui non mantenute). Qui dunque cambia poco.
L’altra novità riguarda l’immigrazione. Il PPE vorrebbe la “creazione di infrastrutture fisiche e mezzi avanzati di sorveglianza per proteggere le frontiere esterne dell'Ue" e “un pacchetto di partenariato globale con Paesi terzi di origine e transito come Mali, Niger, Ciad, Nigeria o Etiopia seguendo il modello dell'accordo Ue-Tunisia e del partenariato strategico e globale tra Egitto e Ue”.
Cosa si intende con “infrastrutture fisiche”? Cavalli di Frisia ai confini dell’Unione? Muri? Blocchi navali? I programmi, lo sappiamo, sono spesso scritti sulla sabbia di una spiaggia battuta dal vento. Però per la sinistra europea non sarà semplice votare una Commissione che accontenti il PPE su questo tema.
Aiuti di Stato per le rinnovabili distruggono il mercato unico
(#GL) Le fonti energetiche rinnovabili sono economicamente sostenibili solo se (lautamente) sussidiate con il denaro dei contribuenti. Chi legge il nostro Sergio Giraldo conosce bene questa regola.
Chi invece avesse bisogno di ulteriori prove può guardare alla decisione pubblicata oggi dalla DG Concorrenza della Commissione, guidata da Margrethe Vestager, che ha autorizzato il governo francese a concedere € 10,8 miliardi di aiuti di Stato a chi realizzerà due giganteschi parchi eolici marini al largo delle coste francesi.
Parliamo di complessivi 2400/2800 Mw di potenza installata per una produzione annua stimata di 10 Twh di energia.
Nessun operatore si avventura in un’opera del genere senza certezze sui tempi di ritorno e sulla redditività dell’investimento. L’incognita da risolvere è quella del prezzo di vendita dell’energia, perché l’investitore non può scendere sotto un prezzo minimo che minaccerebbe la profittabilità dell’investimento. E sappiamo che talvolta l’energia rinnovabile ha anche prezzi negativi.
Qui interviene lo Stato a promettere di rimborsare l’eventuale differenza negativa tra prezzo di mercato e un “prezzo di riferimento”. In questo caso, ogni mese il produttore di energia sarà rimborsato per permettergli di incassare per sempre quel prezzo fisso. La regola sarà valida anche nell’altro senso.
L’aiuto non è lesivo del divieto di aiuti di Stato, perché nel marzo 2023 la Commissione ha definito un Quadro Temporaneo per disciplinare (tra le altre cose) gli aiuti alle rinnovabili.
Ma, si sa, una volta aperta una crepa nella diga, poi a valle arriva l’alluvione. Con buona pace dell’integrità del mercato unico, della parità delle condizioni di concorrenza e di tutte le amenità che, per anni, sembravano un totem inviolabile
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it