OUT! n. 3 - 14/06/2024
Auto elettrica al palo | Francia: riforma delle pensioni e campagna elettorale | I nostri soldi all'Ucraina?| Braccio di ferro al G7 | Elezioni in UK, Farage is back | La Francia fa harakiri
#Autoelettrica #Italia
L’ultimo rapporto pubblicato da BloombergNEF prevede che nel 2024 la crescita delle vendite di auto elettriche nel mondo arrivi al 20% toccando la cifra record di 30 milioni di vetture mentre i volumi di auto con motore a combustione interna (benzina o diesel) continua ad essere lontano dal picco raggiunto nel 2017. Kolin Mckerracher, uno degli estensori del report particolarmente convinto della necessità ed opportunità di arrivare ad una completa elettrificazione del parco macchine, sottolinea tuttavia come la situazione italiana desti qualche preoccupazione. Nel nostro Paese le vendite di auto elettriche nel primo quadrimestre del 2024 sono infatti diminuite di quasi il 25% rispetto al primo quarto 2023. Cali si sono avuti anche in Giappone (-9%) e Germania (-3%). Dati che fanno a pugni con le risultanze di Regno Unito e Francia che registrano rispettivamente un +13% ed un +20%. Alcuni commentatori sostengono tuttavia come il dato italiano sia “condizionato” dall’attesa dell’erogazione dell’incentivo arrivata nel trimestre successivo. È qui che le vendite di auto elettriche torneranno a crescere pure in Italia. Rimangono da fare però due considerazioni: la prima è che senza incentivi il prodotto auto elettrica non si vende. E si vende comunque poco. Non possiamo non notare come questa circostanza non sia niente affatto tranquillizzante per chi ritiene che l’auto elettrica sia il futuro. Nessun incentivo è mai stato speso per invogliare, ad esempio, il consumatore a sostituire il vecchio telefonino GSM con uno smartphone. La seconda è che ciò che chiamiamo eufemisticamente “incentivo” altro non vuol dire che far pagare una parte del prezzo per l’acquisto dell’auto elettrica a chi non la comprerà attraverso la fiscalità generale. Cioè le tasse. E dato il livello dei prezzi stiamo parlando di un classico caso di fisco regressivo: i poveri che sussidiano i ricchi. #FD
#Francia #elezioni #pensioni #Macron
La Francia è di nuovo in campagna elettorale, una campagna improntata alla paura. Paura della destra e paura per i conti pubblici, che colpisce sia destra che sinistra.
Il fronte popolare composto da socialisti, comunisti, verdi e Mélenchon presenterà liste comuni (scadenza per la presentazione delle liste è domenica). Intanto Macron fa campagna elettorale pro domo sua e nella conferenza stampa di mercoledì 12 ha cercato di smorzare le paure relative ad una possibile riforma delle pensioni, già “riformate” solo un anno fa con l’innalzamento a 64 anni dell’età pensionabile. Pochi giorni fa il Consiglio di vigilanza sul sistema pensionistico francese ha lanciato l’allarme sulla sostenibilità dei conti del sistema stesso e ha chiesto esplicitamente un nuova riforma (cioè un altro innalzamento dell’età pensionabile o uno stop all’indicizzazione all’inflazione).
Nella conferenza stampa di mercoledì Macron ha detto che non c’è un progetto di riforma e che le pensioni resteranno indicizzate all’inflazione. Il segmento elettorale dei pensionati è molto importante, rappresentando tra il 30 e il 40% dell’elettorato francese ed avendo una propensione a recarsi alle urne più alta rispetto ai giovani.
Ecco perché anche il Rassemblement National (RN) ha nel suo programma elettorale di non toccare l’indicizzazione delle pensioni ed anzi il ritorno dell’età pensionabile a 60 anni (così come la France Insoumise di Mélenchon). Ieri Jordan Bardella, interpellato in merito, non ha confermato che questa proposta sarà inclusa nel nuovo programma elettorale per le elezioni del 30 giugno e ha detto che in ogni caso un ritorno al limite dei 60 anni non sarebbe immediato.
L’indicizzazione delle pensioni nel 2024 peserà sui conti francesi per 14 miliardi. Tanto che il Ministro delle finanze Bruno Le Maire ha chiesto a Macron di ridurla, cioè di far aumentare le pensioni meno dell’inflazione dal 2025.
Intanto oggi Le Maire ha detto che in caso di vittoria del fronte delle sinistre il sistema pensionistico salterebbe, la Francia entrerebbe in una crisi finanziaria senza precedenti tanto da causare l’uscita della Francia dall’Unione europea. Lo aveva detto anche in riferimento a una possibile vittoria di RN martedì scorso. Dunque, i paradigmi classici dell’Europa dei “conti in ordine” si sposano ancora una volta con la paura. Sembra però si tratti soprattutto della paura del voto popolare. #SG
#Russia #Prestito #G7 #Accordo #ChiPaga?
Eccessivo trionfalismo sull’accordo a livello di G7 per utilizzare i proventi delle attività finanziarie russe sequestrate per garantire un prestito di 50 miliardi di dollari a favore dell’Ucraina. Tali e tanti sono i dettagli ancora da definire, che ci vorranno almeno altri 4/6 mesi per far fluire (forse) i fondi a Kiev.
Quello che è “sfuggito” a giornalisti quasi narcotizzati che ripetono tutti le stesse parole veicolate dagli uffici stampa, senza mai porsi un dubbio, è la risposta alla solita domanda: chi paga? Ursula von der Leyen si è affrettata a sottolineare che i contribuenti europei non scuciranno un centesimo. Questo potrebbe essere vero nella (traballante) ipotesi dell’esistenza di un flusso costante e certo di proventi finanziari derivanti dai circa 200 miliardi sequestrati presso il depositario centrale belga Euroclear. Tali somme, oscillanti tra 3 e 5 miliardi l’anno, dovrebbero essere sufficienti a pagare interessi e capitale di un prestito emesso sul mercato obbligazionario il cui incasso sarebbe poi prestato a Kiev.
Ma chi si azzarderebbe a sottoscrivere un’obbligazione garantita su basi così fragili legalmente? È come se andaste in banca per chiedere un prestito per poter aiutare un amico in difficoltà a cui i ladri hanno svaligiato la casa. Alla domanda del direttore circa le garanzie da prestare per potervi dare il denaro, voi rispondereste che avete sequestrato la cassetta di sicurezza del ladro e che contate di ripagare la banca con i proventi di quella ricchezza. A quel punto il direttore solleverebbe obiezioni circa la stabilità e la certezza di quei proventi (per esempio cosa accadrebbe se quella cassetta fosse vuota o non fruttasse quanto sperato?) e voi sareste costretti a rilasciare una bella ipoteca sulla vostra casa. È chiaro come funziona? La garanzia dei fondi russi è scritta sul ghiaccio, per chi non l’avesse ancora capito. Il “backstop” (il paracadute, per usare le parole della von der Leyen) saranno i nostri soldi. #GL
#G7 #Meloni #aborto
Sarebbe scomparso dalle bozze di conclusioni finali del G7 il riferimento ad un “accesso effettivo e sicuro all’aborto” che invece risultava essere presente nel documento analogo pubblicato l’anno scorso. La Francia ha stigmatizzato l’accaduto maliziosamente cercando di creare dissapori diplomatici con l’amministrazione Biden, che dell’aborto fa da sempre una sua bandiera. Giorgia Meloni commenta come Macron abbia tentato di fare campagna elettorale in vista delle prossime elezioni transalpine sulla pelle del summit. In Francia l’accesso all’aborto è stato infatti recentemente inserito in Costituzione ad ampia maggioranza. Senza entrare nel merito della contesa, quali considerazioni trarre da questa presunta e contestata eliminazione? Che i rapporti di forza sono temporaneamente a favore dell’Italia in questi giorni. E non potrebbe essere altrimenti. Il premier britannico Rishi Sunak è a scadenza come lo yogurt vista la più che certa sconfitta alle elezioni del prossimo luglio. Macron rischia seriamente di dover coabitare negli ultimi due/tre anni di mandato con un primo ministro di destra se Marine Le Pen risultasse vincitrice alle prossime elezioni. Sempre a luglio. Il cancelliere tedesco Scholz deve a sua volta leccarsi le ferite dopo la sonora batosta elettorale subita alle ultime elezioni europee dove il partito socialdemocratico è addirittura scivolato ai minimi storici del consenso superata da Afd oltre che dalla Cdu. Biden non appare minimamente in condizione di superare fisicamente e brillantemente le prossime elezioni presidenziali di novembre. Il canadese Trudeau viene dato ai minimi storici quanto a gradimento elettorale. Una situazione del genere, nata da un’irripetibile costellazione di coincidenze, probabilmente mai più tornerà e sicuramente finirà a breve. Speriamo non rimanga il rimpianto di aver inutilmente sprecato questa occasione con vittorie soltanto simboliche. #FD
#Farage #UK #elezioni #ReformUK#Sunak
Ritorno sulla scena politica inglese di Nigel Farage, al vertice di un piccolo (o ex tale) partito conservatore, Reform UK. Dopo la Brexit, l’annuncio della sua candidatura in un collegio elettorale (era già presidente onorario del partito) ha suscitato poco più di qualche scettico sorriso fino a ieri, quando da un sondaggio è emerso che le intenzioni di voto per Reform UK arrivano al 19%. Numero superiore a quello del partito Conservatore, fermo al 18% (irraggiungibile il partito Laburista al 37%). Una battuta anonima raccolta in Parlamento spiega questa situazione: “Penso che la gente sia stufa dei Tories, ma non del conservatorismo. Quindi si stanno spostando verso un altro partito conservatore”.
Il partito guidato da Rishi Sunak si avvia al peggior risultato elettorale di sempre nelle elezioni del prossimo 4 luglio, mentre i laburisti guidati da Keir Starmer si avviano a governare. La presenza di Reform UK a destra dei Conservatori rischia di trasformare l’annunciata sconfitta dei Tories in una disfatta totale. Nel sistema elettorale britannico vince chi ha più voti nel singolo collegio. Dunque, anche avendo percentuali di voto alte in tutto il paese (ad esempio un 20%) ci si può trovare senza neppure un parlamentare eletto. La presenza di Reform UK certamente ha l’effetto di sottrarre al partito Conservatore molti di quei collegi in cui questo potrebbe vincere. Lo sa bene Rishi Sunak, che infatti sta facendo campagna non solo contro i Laburisti ma anche contro Reform. A quanto pare, con scarsi risultati. “L'unico voto sprecato ora è un voto conservatore, noi siamo gli sfidanti del Labour e siamo sulla buona strada”, ha detto ieri Farage. Il prossimo parlamento inglese potrebbe vedere una maggioranza laburista schiacciante. #SG
#Francia #Spread #Bond #Mercati #Irresponsabili #Btp
Venerdì di grande agitazione sui mercati. Borse in netto ribasso e spread tra Btp e Bund a 155, da 134 registrato alla chiusura di venerdì scorso. Sta accadendo ciò che avevamo anticipato, da facili profeti, già ieri.
Il panico che Emmanuel Macron e gli esponenti del suo governo, il ministro delle finanze Bruno Le Maire in testa, stanno seminando a piene mani per screditare il fronte politico che fa capo a Marine Le Pen, sta assumendo contorni tafazziani.
Se Le Maire, dall’alto della sua carica istituzionale, per ben due volte in pochi giorni arriva a minacciare scenari apocalittici in caso di vittoria degli avversari nella prossima tornata elettorale per eleggere l’assemblea nazionale, cosa volete che accada sui mercati? Che qualcuno cominci davvero a credere che la Francia possa uscire dalla UE, anche se, al momento, non se ne trova traccia nel programma elettorale della Le Pen. Un comportamento che definire irresponsabile è poco. Soprattutto quando di mezzo c’è il proprio Paese.
Si sta cercando, seminando il panico, di attuare la vecchia ricetta, già attuata in Italia, secondo cui saranno i mercati a insegnare a votare la cosa giusta. Purtroppo i media italiani anziché puntare i riflettori su Parigi non hanno saputo fare altro che parlare del Btp a cui non è accaduto assolutamente nulla. Fermo come una statua. Lo spread del Btp è salito solo perché il rendimento del Bund tedesco è sceso di 30 punti in una settimana, di cui solo ieri circa 15. Lo spread a 155 dipende solo da questa variabile. In confronto, è stato lo spread del Bond francese a salire di circa 30 punti (contro i circa 20 del Btp), portandosi a poco meno di 80, dai 48 di venerdì scorso. Una quota che non si vedeva dai peggiori momenti di incertezza politica.
La forza del Bund, utilizzato come classico bene rifugio, e la debolezza del cambio dell’euro contro dollaro, sono il segnale che qualcuno comincia davvero a credere che la Francia sia il vero anello debole dell’eurozona. #GL
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it