OUT! n. 41 - 19/09/2024
Agosto: redde rationem per l'auto elettrica| Orsini, buona la prima | Il Patto di Stabilità stenta a partire | Merz archivia Draghi
Agosto: redde rationem per l’auto elettrica
(#FD) Secondo i dati dell’Associazione Europea dei Costruttori di Automobili (ACEA) nel mese di agosto sono state vendute quasi 644mila autovetture. Un calo di oltre il 18% rispetto allo stesso mese di un anno fa. 144mila auto in meno a fronte delle 788mila vetture di agosto 2024. Il calo più drammatico lo si è registrato nelle auto a batteria. 72 mila in meno praticamente il 44% in meno. Francia, Italia e Germania rappresentano più della metà del mercato. Il calo delle autovetture esclusivamente elettriche è stato drammatico: -33% per la Francia, -41% per l’Italia e -69% per la Germania. Siamo arrivati al redde rationem. L’auto elettrica è stata spacciata per innovazione ma non lo è. Forse sarà una novità ma non certo un’innovazione. Chiamasi tale, infatti, un nuovo prodotto che cambia radicalmente le regole del gioco e le funzionalità del prodotto. Lo smartphone è un’innovazione perché a differenza del vecchio telefonino, a sua volta un’innovazione rispetto al telefono fisso, ci puoi fare una miriade di cose che era impossibile, anzi inimmaginabile fare, con un vecchio cellulare. L’auto elettrica non è invece un’innovazione. Ha quattro ruote e va per strada. Mica vola. Ha 300 km di autonomia a batteria carica contro gli 800-900 di un serbatoio di un’analoga macchina a diesel o benzina. Potrebbe essere un’innovazione se i km di autonomia fossero 3.000 non 300. Potrebbe essere un’innovazione se non avesse bisogno di ricaricarsi perché, che ne so, cattura i raggi del sole e li trasforma in energia mentre viaggia. Ma se ci mette dai 30 ai 45 minuti per caricarsi, rispetto ai 5 minuti che ti ci vogliono a fare un pieno, dove sta l’innovazione? Non è una novità neppure da un punto di vista cronologico. Come documento nel mio libro “Per non morire al verde” edito da Il Timone, ai primi del secolo scorso la percentuale di auto elettriche sul totale delle vetture circolanti negli Stati Uniti superava addirittura il 30% contro il 3% del 2022. Chissà com’è che questa mirabolante tecnologia del futuro, già̀ conosciuta nel secolo scorso, si è poi darwinianamente estinta per riapparire solo ora con un atto di imperio politico che metterà̀ fuori legge appunto le auto diesel e benzina. Ed ora il problema delle case automobilistiche non è più di prospettiva ma di sopravvivenza. Come spiegato dal CEO di Renault De Meo, deve essere venduta un’auto elettrica ogni cinque per non incorrere nel pagamento di multe per il mancato raggiungimento dei target di decarbonizzazione. Multe che potrebbero avere un impatto fino a 15 miliardi sul conto economico dei costruttori. Il dubbio è amletico: produrre e vendere auto per pagare le multe? O smettere di produrre anche le auto che potrebbero essere commercializzate pur di non pagare dazio? C’è anche una terza soluzione che però somiglia molto alla prima. Ovvero comprare i certificati per emettere CO2, ad esempio, da Tesla che infatti i soldi li fa mica vendendo le auto elettriche. Bensì vendendo i certificati a chi è costretto a vendere le auto elettriche. Spulciando il bilancio del secondo quarto del 2024 di Tesla si scoprono cose interessanti. Su un risultato netto di 1,4 miliardi (a fronte di un fatturato di 25 miliardi), ben 890 milioni derivano dalla vendita di questi certificati. Una manna pari al 65% dei profitti ed in decisa crescita rispetto alla media del 21% degli ultimi quattro trimestri. Il vero business non è l’auto elettrica, ma vendere questi crediti. Privilegio assicurato a chi produce solo elettrico.
Orsini, buona la prima
(#SG) La relazione del neopresidente di Confindustria Emanuele Orsini, ascoltata ieri all’Assemblea 2024, fa ben sperare. Finalmente una posizione chiara rispetto alle cause del declino della produzione industriale italiana, in calo da un anno e mezzo. Correttamente, Orsini mette in luce che la “transizione” è in realtà una rivoluzione industriale, che porta dunque con sé costi esorbitanti e tempi lunghi. Parole chiare sul Green Deal: “Il Green Deal è impregnato di troppi errori che hanno messo e mettono a rischio l’industria. Noi riteniamo che questo non sia l’obiettivo di nessuno. La decarbonizzazione inseguita anche al prezzo della deindustrializzazione è una debacle. La storia e il mercato europeo dell’auto elettrica che stiamo regalando alla Cina, parlano da soli! La filiera italiana dell’automotive è in grave difficoltà, depauperata del proprio futuro dopo aver dato vita alle auto più belle del mondo e investito risorse enormi per l’abbattimento delle emissioni.”
Parole chiare anche su plastica e ceramica, penalizzate dalle regolamentazioni green che svantaggiano l’industria italiana: “Bisogna essere chiari: la disciplina degli ETS deve essere assolutamente cambiata. Continuando così, regaleremo ai nostri competitor internazionali, come sta avvenendo per l’automotive, anche l’acciaio, il cemento, la metallurgia, la ceramica, la carta. Con ricadute negative sugli investimenti, sulla crescita e sull’occupazione”. Non si poteva dire meglio.
Netta la presa di posizione sulla competitività: mancano gli investimenti, manca un prezzo più basso dell’energia, manca una industria delle materie prime. Serve una discussione chiara sul nucleare.
Apprezzabile anche il passaggio sulle retribuzioni: “se le retribuzioni sono al di sotto della media europea il costo del lavoro è più elevato”. Da qui la richiesta al governo di rendere permanente il taglio del cuneo fiscale. Al netto di alcuni altri aspetti, un programma di lavoro che finalmente mette in fila le giuste priorità. Un ultimo esempio? Nelle 20 pagine di relazione non c’è scritto nemmeno una volta “ESG”.
Il Patto di Stabilità stenta a partire
(#GL) Domani avrebbe dovuto essere il D-Day per la trasmissione del piano strutturale di bilancio a sette anni alla Commissione.
Invece non accadrà nulla, come non accadrà nulla per tutti i prossimi giorni, almeno fino al 15 ottobre. Per ora.
Cosa sta accadendo? Nulla di particolare, se si tiene in mente quel famoso aforisma che recita «gli uomini fanno i piani e gli dei sorridono». Semplicemente si tratta della prima applicazione della riforma del Patto di Stabilità e tutti i governi, non solo quello italiano, hanno bisogno di tempo, molto tempo, per arrabattarsi in un labirinto di regole possibilmente più intricate di quelle del precedente Patto di Stabilità.
Ecco che il 20 settembre è diventata una data scritta sul ghiaccio nei giorni di solleone. Solo due Paesi, Malta e Danimarca, dovrebbero farcela. Altri 15 Paesi, oltre all’Italia, hanno chiesto, e di fatto ottenuto, alla Commissione di posticipare l’invio al 15 ottobre. E ancora altri 9 Paesi (tra cui spicca la Francia) non ce la faranno nemmeno entro il 15, e si sono impegnati con Bruxelles a presentare i piani entro fine ottobre.
Se questo è l’inizio, figuriamoci cosa accadrà quando si entrerà nel merito dei singoli piani. Già il solo pensare a un piano a 7 anni è fonte di enormi perplessità; figuriamoci quando in questo piano si ha la presunzione di farci entrare riforme, investimenti, impegni di bilancio, ciascuna particolarmente complessa, che spesso devono passare dai rispettivi Parlamenti, almeno per salvare le apparenze. Tutti piani che quasi sempre superano anche le scadenze delle legislature in corso, con la relativa incertezza su cosa potrebbe accadere in caso di ribaltamento della maggioranza politica.
Con la beffa che si tratta di numeri verosimilmente destinati ad essere travolti dalle mutate circostanze e da tanti possibili eventi in grado di sconvolgere proiezioni concepite nell’atmosfera controllata di qualche PC di qualche economista del Mef. Poi c’è la realtà.
Per esempio quella delle inondazioni che stanno sconvolgendo in queste ore il centro Europa. E il governo della Repubblica Ceca cosa intende fare, per riparare i danni? Semplice annuncia uno sforamento del 12% rispetto agli obiettivi di bilancio 2024, con una coda nel bilancio 2025. Ben 1,8 miliardi in più necessari come il pane per rifare argini, ponti, strade e il piano di “austerità” tanto caro a Bruxelles, d’incanto non vale più nemmeno la carta su cui è stampato. Per non parlare dei mille fantastiliardi di investimenti progettati da Mario Draghi? Come li finanziamo? Con il deficit in riduzione?
Ma questo è solo un modesto aperitivo rispetto a quanto potrebbe arrivare da Parigi, dove proprio in queste ore Michel Barnier ha presentato il proprio governo a Emmanuel Macron. Diversamente dall’Italia, già avviata a legislazione vigente su un sentiero di riduzione del deficit/PIL, a Parigi il trend è verso un peggioramento del deficit e del debito, quindi dovrà essere ben superiore la correzione.
Ma non vogliamo dirvi altro per non rovinarvi la sorpresa. Da Parigi potrebbero arrivare molte “soddisfazioni”.
Merz archivia Draghi
(#SG) Ci era sfuggito, ma il leader della CDU Friedrich Merz, che si è appena candidato per il ruolo di cancelliere alle prossime elezioni in Germania, la settimana scorsa, in un dibattito al Bundestag, ha già archiviato il corposo rapporto sulla competitività di Mario Draghi. Lo ha fatto durante il durante il dibattito generale sul bilancio federale 2025 al Bundestag, con riferimento al solo tema dell’eventuale debito comune da destinare agli investimenti, ma tanto basta per mandare a monte il tutto.
“Voglio dirlo molto chiaramente, ora e in futuro, farò tutto il possibile per impedire che questa Unione europea precipiti nel debito”, ha detto Merz, il quale ha tenuto anche a ribadire che il Next Generation EU (che peraltro non è debito comune ai sensi dell’articolo 125 del TFUE, poiché proprio in base a tale articolo anche nel NGEU ogni Stato risponde del proprio debito) fu un’eccezione legata al Covid e che la Germania non vuole ripetere l’esperienza. Almeno, se l’anno prossimo la CDU sarà al governo. “Ciò che ha proposto il signor Draghi non è coperto dalle attuali disposizioni dei trattati europei”, ha detto Merz, ripetendo una cosa ovvia (appunto l’art. 125 del TFUE).
Perché se non si cambiano i trattati la competitività secondo Draghi resta nel libro dei sogni (o degli incubi, a seconda dei punti di vista). Dovrebbe essere chiaro ormai a tutti che l’Unione ha nella sua genesi, i trattati, il limite al suo stesso sviluppo. L’Ue ha puntato sin qui, per precisa scelta, principalmente sulla competitività di prezzo, ovvero sulla leva del contenimento del costo del lavoro. Lo ha detto Draghi stesso a La Hulpe: “ [In Europa] abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a cercare di abbassare i costi salariali gli uni rispetto agli altri, e abbiamo combinato questo con una politica fiscale prociclica: l'effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale”. Questo approccio è contenuto direttamente nei trattati. Se non cambiano i trattati, non c’è competitività alternativa.
Merz ha ricordato che “in Europa abbiamo il divieto di indebitamento” e ha concluso: “Posso solo dire a nome del mio gruppo e anche a nome del Partito Popolare Europeo: farò di tutto per impedire che l’Europa imbocchi la strada di un simile debito”.
“Anche a nome del Partito Popolare Europeo” è una frase interessante. Come l’attuale ministro delle finanze liberale, Christian Lindner, che l’anno prossimo però sarà ai giardinetti, il nuovo leader della CDU non ha la minima intenzione di cambiare la prospettiva tedesca sulla questione del debito, anche se il debito è “buono” (Copyright Draghi). Insomma, il rapportone sulla competitività è già impallinato. A proposito, domenica si vota nel Brandeburgo.
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati delle commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it