La sovracapacità europea
(#SG) Da mesi, soprattutto negli Stati Uniti, si analizza la forza produttiva cinese, individuando nella sovracapacità produttiva della Cina la causa della crisi industriale occidentale. La tesi è che i massicci investimenti cinesi in capacità produttiva non possano trovare sbocco adeguato in patria, dove la domanda è stagnante e il mercato del lavoro è debole. Dunque, la produzione cinese trova la strada dell’estero e Pechino accumula surplus delle partite correnti, deprimendo le manifatture dei paesi spiazzati dall’invasione dei prodotti cinesi.
La tesi, non nuova, viene diffusa con forza negli USA ed anche in Europa, dove però, curiosamente, nessuno fa un parallelo con quanto la Germania fa da decenni. Ma a parte ciò, è vero che la Cina negli ultimi 20 anni ha fatto quello che in Europa e negli USA si è fatto poco, ovvero si è investito. Mettendo in relazione i dati del FMI su Gross capital formation (investimenti) e PIL si ha questo grafico:
Da cui risulta che, ad esempio, nel 2022 la Cina ha investito il doppio di USA, Germania e Italia. E durante la crisi dei mutui subprime, mentre in Occidente si tirava la cinghia, la Cina ha adottato politiche anticicliche investendo di più.
Con una tale mole di investimenti, gli elementi che hanno contribuito al successo dell’export cinese hanno certamente a che fare con la capacità produttiva del paese. Tuttavia, per fare un esempio, di auto elettriche cinesi in Europa se ne vedono, per ora, ancora pochine. Questo perché, in realtà, il mercato non compra molte auto elettriche e in generale compra meno automobili. Per via dei prezzi alti, anche delle auto ICE, da una parte, e per via del ridotto potere di acquisto dall’altra parte. I prezzi delle automobili termiche sono aumentati del 15-30% in termini reali, ad esempio, negli ultimi 20 anni.
Un valido motivo per cui le esportazioni cinesi hanno sbaragliato la concorrenza è piuttosto la sottovalutazione del renminbi.
Dopo un apprezzamento temporaneo nel 2021-2022 la moneta cinese è rimasta pressoché stabile negli ultimi 5 anni. Il che contrasta con la mostruosa posizione finanziaria netta cinese al secondo trimestre 2024:
pari a 2.988 miliardi di dollari (il 16,7% del PIL 2023). Quindi certamente un cambio sottovalutato sta favorendo molto le esportazioni cinesi.
Di fronte a questi dati, sul mercato dell’auto viene da pensare che in realtà la sovracapacità sia quella europea. Tra Volkswagen, Renault, Stellantis e le altre marche tedesche probabilmente c’è qualcuno di troppo, rispetto ad un mercato che si sta restringendo. Inevitabilmente il settore europeo dovrà consolidarsi se vuole sopravvivere all’urto delle auto cinesi. Guardare la pagliuzza della sovracapacità cinese non aiuta a vedere la trave nell’occhio del settore dell’automobile europeo. Prima si affronta la questione meglio sarà.
La legge di bilancio à la carte
(#GL) Ci sono due modi di leggere e comprendere la legge di bilancio dello Stato.
Se si fa parte dell’opposizione, il metodo è quello di cogliere fior da fiore, alla ricerca della norma che dispone maggiori entrate o minori spese per contestare la politica di austerità del governo (salvo dimenticarsi che l’austerità era buona quando i partiti oggi all’opposizione erano al governo).
Se si fa parte del governo, il metodo è quello di cogliere fior da fiore, alla ricerca della norma che dispone minori entrate o maggiori spese per avvalorare la tesi che il governo non fa austerità e stimola l’economia.
Sono entrambi metodi sbagliati.
Per il semplice ed essenziale motivo che tutte le decisioni di maggiori o minori spese o maggiori o minori entrate, disseminate nei 144 articoli da pochi giorni all’esame della Camera, sono una massa unitaria. Non esistono maggiori/minori entrate specificamente legate a maggiori/minori spese.
E questo elementare principio è scritto a chiare lettere nella relazione illustrativa a pagina 34, dove leggiamo che «il principio di unità del bilancio dello Stato stabilisce che ogni spesa sia finanziata con una quota del complesso delle entrate e che ogni entrata finanzi una quota della spesa, determinando così il divieto dei tributi di scopo…».
Detto in altre e più banali parole, tutte le spese finanziano tutte le entrate.
Invece il dibattito in questi giorni si è concentrato sull’analisi di singole misure, attività del tutto sterile. Perché tutti saranno sempre in grado di trovare una o più norme che danno o tolgono qualcosa. Allora che senso ha citarne solo alcune, a piacere? È la somma che fa il totale, diceva Totò.
E il totale parla chiaro, piaccia o non piaccia.
Se il governo non avesse scritto una solo riga, avremmo avuto nel 2025 (per semplicità trascuriamo 2026 e 2027) un saldo netto da finanziare (concetto diverso ma non molto lontano dal deficit o indebitamento netto, che dir si voglia) inferiore per 8,2 miliardi rispetto al 2024.
Invece, nei 144 articoli si concentrano maggiori spese e minori entrate che, cumulate, valgono 14,5 miliardi. A cui si aggiungono 4,9 miliardi di rifinanziamenti di missioni (cioè attività specifiche) dei vari ministeri. A saliamo così a 19,4 miliardi.
Da dove il governo intende prendere quei 19,4 miliardi? Per 8,2 miliardi facendo un maggior ricorso al debito, per 9,6 miliardi tagliando altre missioni dei ministeri, e per 1,6 miliardi beneficiando della cosiddetta “retroazione” (effetto positivo sulle entrate tributarie e contributivi della maggiore crescita).
Dopodiché, chi vuole continuare a trastullarsi con il commento ad ogni singola norma, continui pure.
Si poteva fare di più degli 8,2 miliardi messi sul piatto senza ricorrere a tagli? Se non avessimo avuto la procedura d’infrazione di Bruxelles sul collo, con la necessità di passare da un deficit/PIL del 3,8% al 3,3%, certamente sì senza probabilmente scuotere i mercati.
Ma siamo nella gabbia europea e queste sono le corte catene che ci legano.
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati delle commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it