OUT! n. 20 - 09/07/2024
La Cina sbarca in Turchia | Trump il realista | Auto elettriche e batterie battono la fiacca | Lunga vita al motore "a benza" | Francia, alchimie parlamentari | Bankitalia smonta i timori della Bce
La Cina sbarca in Turchia
(#FD) Il più importante produttore di auto elettriche cinese BYD costruirà in Turchia una nuova piattaforma produttiva investendo un miliardo di dollari. Entro il 2026 sarà in conduzione di produrre almeno 150mila autovetture l’anno. La Cina prosegue la sua espansione produttiva in Europa dopo l’investimento in Ungheria, essendo la Turchia comunque parte dell’Unione Doganale. Gianclaudio Torlizzi fondatore di T-commodity legge l’operazione come sintomo di sostanziale “bassa preoccupazione” da parte di Pechino in merito alle ultime decisioni di imporre dazi sulle auto cinesi da parte di Bruxelles. “A questo si aggiunga” prosegue Torlizzi “che l’operazione presenta una duplice valenza industriale per BYD. La piattaforma turca consente infatti la possibilità di utilizzare il gas russo. Questo si traduce in energia a basso costo. Inoltre, si ridurranno considerevolmente i costi di trasporto consentendo di evitare il collo di bottiglia del Canale di Suez. È vero che la Cina viene più facilmente e selettivamente risparmiata dagli attacchi Houthi ma il costo del nolo dei container è comunque arrivato a ridosso dei 10mila euro”. La Turchia di fatto si consolida come hub produttivo dell’automobile. Da lì usciranno oltre 1,5 milioni di autoveicoli. Cinque volte la produzione complessiva in Italia da parte di Stellantis.
Trump il realista
(#SG) La rivista americana Foreign Affairs (FA), organo bimestrale dell’assai influente Council on Foreign Relations di (CFR), esce in edicola con un inatteso elogio della politica estera di Donald Trump, passata e futura. La premessa del lungo articolo è questa:
L'agenda "America first" dell'ex presidente è un programma intellettualmente difendibile e fondamentalmente realista che cerca di accertare e agire sugli interessi nazionali degli Stati Uniti piuttosto che sugli interessi degli altri. Nasce da una premessa ineluttabile: gli Stati Uniti non hanno più il potere che avevano una volta e si stanno disperdendo troppo. Hanno bisogno di distinguere i loro interessi nazionali essenziali da quelli desiderabili. Devono delegare più responsabilità ai loro ricchi alleati. Devono smettere di cercare di essere ovunque e fare tutto.
I due autori dell’articolo, Andrew Byers e Randall L. Schweller, tessono l’elogio del pragmatismo trumpiano. Secondo gli autori, il partito repubblicano è composto da neoconservatori e primatisti che vogliono gli USA proiettati nel mondo come potenza militare. Ma Trump e i suoi seguaci, che crescono in numero all’interno del Partito Repubblicano, non sono così. L’idea di Trump è che gli alleati degli USA debbano pagarsi la propria difesa, nell’ottica di un riequilibrio degli sforzi per mantenere la pace. La proiezione americana nel mondo è una struttura sempre più onerosa e sempre meno efficace. Gli autori si mostrano preoccupati, ad esempio, della esposizione delle basi americane in Iraq e Siria.
Trump, dice l’articolo, non è un pacifista, ma vede la politica mondiale più in termini economici che strategici: “Abbiamo un potere enorme, economicamente. Se posso risolvere le cose economicamente, è così che lo voglio fare”, ha detto Trump nel 2019 a proposito dell’Iran.
L’articolo illustra come Trump abbia definito l’interesse nazionale degli Stati Uniti escludendo cose come la diffusione di valori liberali e interventi militari o umanitari. In altre parole, secondo Trump gli USA non sono un agente divino per i maltrattati all'estero. Invece, egli durante il primo mandato
ha spostato l'attenzione di Washington sulla competizione tra grandi potenze e sul recupero dei vantaggi di potere globale degli Stati Uniti. Era, in altre parole, un vero realista: qualcuno che evita visioni idealistiche e ideologiche degli affari globali a favore della politica di potenza.
Durante il primo mandato, Trump è stato frenato da un establishment fatto di falchi della sicurezza nazionale, affermano gli autori. Ma
Trump non commetterà più questo errore. La sua prossima amministrazione, invece, si tradurrà forse nella politica estera statunitense più moderata della storia moderna.
Intanto, la Convention nazionale repubblicana inizia il 15 luglio a Milwaukee e per quel momento Trump dovrà aver indicato il nome del suo vice. Salgono le quotazioni di J.D. Vance, ma a sentire quanto ha detto Trump pochi giorni fa (“Ci vuole qualcuno che aiuti a vincere”) Marco Rubio sembra avere maggiori chance.
Auto elettriche e batterie battono la fiacca
(#GL) I produttori europei di batterie per auto elettriche (EV) stanno vivendo un drammatico confronto tra sogni e realtà. Soffocati tra domanda stagnante, mancanza di economie di scala e inferiorità tecnologica rispetto ai concorrenti asiatici, cinesi in testa.
Un’accurata analisi apparsa sul Financial Times ha disegnato un quadro a tinte fosche per un’industria che avrebbe dovuto rappresentare il pilastro fondamentale per consentire ai produttori europei di auto un minimo di integrazione verticale a monte.
Ma purtroppo il “cavallo non beve”. Le vendite di EV in Europa segnano un timido incremento del 2.4% nei primi cinque mesi del 2024, rispetto allo stesso periodo del 2023. A maggio addirittura un -11%. E le previsioni per il 2030 sono state tagliate del 15% nel giro di pochi mesi.
La conseguenza è che almeno il 50% gli investimenti in “Gigafactory” previsti in Europa fino al 2030 sono a rischio di sottoutilizzo, contro il 29% dei produttori cinesi, che però viaggiano su una capacità produttiva installata che è quasi tripla.
Una differenza di scala produttiva che inevitabilmente conduce a minori costi a vantaggio dei cinesi.
Se a questo ci aggiungiamo che in Asia hanno puntato su una tecnologia (LFP) che costa meno rispetto a quella prevalente in Europa (basata su nickel e cobalto), l’industria europea appare proprio all’angolo e gli investitori cominciano a rifarsi i conti, rinviando o cancellando gli investimenti pianificati. Mentre i produttori europei di EV sembrano già preferire le batterie asiatiche.
Sta arrivando il conto (salato) di una dissennata fuga in avanti basata sull’ideologia “green” che ha danneggiato irreparabilmente un’industria una volta fiore all’occhiello del nostro continente.
Lunga vita al “motore a benza”
(#FD) Saudi Aramco è la prima compagnia al mondo per utili macinati. In tutto 230 miliardi di dollari. Quasi il 50% del suo fatturato pari a 490 miliardi di dollari. Fino a poco tempo fa era anche la prima al mondo quanto a capitalizzazione borsistica. Oggi invece con i suoi 1.800 miliardi deve “accontentarsi” del sesto posto dietro Apple, Microsoft, Nvidia, Google ed Amazon. La compagnia petrolifera araba non ha dubbi. Il motore a scoppio continuerà ad essere il protagonista. E si è tolta lo sfizio di investire lo 0,3% dei suoi utili (vale a dire 750 milioni di dollari) per acquistare il 10% di Horse Power Train azienda specializzata nella progettazione e produzione di motori a scoppio. Il razionale dell’investimento, secondo gli addetti ai lavori come riporta il Ft, è motivato dal fatto che i costruttori europei hanno smesso di investire sui motori endotermici perché convinti che tanto dal 2035 potranno essere immatricolate solo auto elettriche. La scelta, quindi, sembra incorporare la convinzione che ci sarà un sostanziale fallimento circa l’immediato abbandono dell’auto a benzina in favore di quella elettrica. Che bene o male è la stessa convinzione di Toyota che ha infatti convintamente e laicamente continuato ad investire anche sulla produzione di nuovi motori a scoppio. Il che non deve stupirci più di tanto. L’abbandono dell’auto a benzina o diesel in favore di quella elettrica è stata unicamente motivata da una scelta politica senza essere minimamente supportata da alcun vantaggio di costo o comodità per il consumatore. Già nel 2020 Nomisma stimava in 13KWh per kg di peso la densità energetica di un’auto a benzina contro gli appena 0,4 Kwh dell’auto elettrica. 13 contro 0,4 rende l’auto a benzina vincente di oltre 65 volte. Anche considerando il fatto che, secondo i più accaniti fan dell’elettrico, solo il 13% dell’energia prodotta dalla combustione del carburante diventa movimento contro il 73% dell’auto elettrica, la vecchia auto a benzina continua ad essere sei volte più efficiente. E non abbiamo ancora parlato dei tempi di ricarica o di come venga prodotta l’energia elettrica che serve alle auto elettrica. Sicuramente bruciando anche benzina.
Francia, alchimie parlamentari
(#SG) Fare il giornalista in Francia sta diventando un lavoro usurante. La redazione di Le Figaro si è cimentata nel mescolare i seggi per trovare possibili maggioranze all’Assemblea Nazionale dopo le elezioni di domenica scorsa.
Un lavoro che nella ricerca dell’impossibile ricorda un po’ il Tremonti impersonato da un grande Corrado Guzzanti:
e che ha trovato una unica possibile accozzaglia con numeri sopra la maggioranza assoluta dei seggi, che ha più buchi che toppe:
Però, di una cosa bisogna essere avvertiti. Diversamente che in Italia e in altri paesi, un governo in Francia può nascere anche senza la fiducia del parlamento.
Per cui, a norma dell’articolo 49 della Costituzione francese, un governo nominato dal Presidente, quale che sia, si regge benissimo sino a che non vi sia un esplicito voto contrario del Parlamento. Il che può accadere quando il governo stesso chiede la fiducia sul suo programma o su una dichiarazione generale di intenti politici (cosa che non è obbligato a fare) e questa viene negata da un voto contrario dell’Assemblea. Oppure, quando l’Assemblea stessa vota a maggioranza una mozione di sfiducia, che deve essere presentata da un decimo almeno dei deputati e votata dalla maggioranza assoluta dei componenti l’Assemblea. Questi sono i casi in cui in Francia il governo può cadere in Parlamento.
Ergo, più che ricercare maggioranze che sostengano un governo, le grandi manovre in corso a Parigi sono per calcolare quali maggioranze contrarie siano possibili. Differenza non da poco. In sintesi, in Francia non è solo il sistema elettorale a favorire le grandi manovre. Anche nelle procedure che regolano i rapporti tra governo e parlamento ci sono ampi spazi per la creatività, diciamo così.
Bankitalia smonta i timori della Bce
(#GL) Quando parla il governatore di Banca d’Italia Fabio Panetta non ci si annoia mai. Non la manda a dire. I discorsi soporiferi del suo predecessore Ignazio Visco sono ormai dimenticati.
Ieri Panetta, intervenendo all’assemblea annuale dell’Abi ha smontato ad uno ad uno tutti i (presunti argomenti) che la Presidente della Bce Christine Lagarde usa disinvoltamente per non tagliare i tassi.
Non esiste un problema dell’inflazione dei servizi, strutturalmente più alta rispetto a quella dei beni e temporalmente sempre sfasata. Non esistono nemmeno timori che la crescita dei salari inneschi un rialzo dell’inflazione. Si tratta di un “inevitabile” recupero del potere d’acquisto perso in passato e, in ogni caso, i profitti aziendali offrono sufficiente spazio per non traslare sui prezzi quegli aumenti di costo.
Quindi non ci sono scuse per tagliare ancora i tassi che devono essere adeguati al calo dell’inflazione effettiva e attesa.
Sul fronte interno, il PIL del secondo trimestre dovrebbe far segnare un +0,3% congiunturale, in linea con un incremento annuo del +0,9%. Quasi tutto merito della domanda estera, mentre quella interna resta debole.
Di rilievo il fatto che questa crescita sia avvenuta in presenza di una riduzione del credito a imprese e famiglie la cui entità è paragonabile a quella delle crisi degli ultimi 15 anni.
Ciononostante, il Pil ha retto grazie ai sostegni al reddito in occasione della crisi dei prezzi energetici e della maggiore solidità di fondo di imprese, famiglie e banche. Più liquidità e più redditività hanno consentito di attutire il colpo.
Infine, Panetta manda l’ultimo “pizzino” ai colleghi di Francoforte. Quanto a lungo si potranno tollerare questi tassi se l’inflazione italiana è nettamente più bassa di quella degli altri principali Paesi?
Gli autori
Fabio Dragoni
Bocconiano. Un passato da manager e piccolo imprenditore. Si è occupato per anni di sanità dopo aver lavorato qualche lustro nel mondo delle banche locali. Dal febbraio 2014 non si dà pace. Lotta e scrive di moneta e libertà. Oggi firma de La Verità, Il Timone e CulturaIdentità. Polemico come molti suoi conterranei. Perché come dice Stanis La Rochelle: “i toscani hanno devastato questo Paese”.
Sergio Giraldo
Classe 1969, laurea in Scienze Politiche a Milano. Attivo da trent’anni nel settore dell'energia, dove ha ricoperto ruoli dirigenziali in diverse aziende, è analista indipendente dei mercati commodity, delle politiche europee e del commercio internazionale. Collaboratore assiduo del quotidiano La Verità. Socio di a/simmetrie.
Giuseppe Liturri
Nato a Bari nel 1966. Laurea in Economia Aziendale all'Università Bocconi e trentennale esperienza in finanza e gestione d'impresa. Dal 2018 impegnato in un'intensa attività di divulgazione e commento su temi di economia nazionale e internazionale, con particolare attenzione all'Eurozona. Scrive su La Verità e su Startmag.it